Gli integratori alimentari nell’anziano
Autore: Dott. Emanuele Cereda, Medico Ricercatore, Fondazione I.R.C.C.S. Policlinico “San Matteo”, Pavia
Revisore scientifico: Prof. Paolo Magni, Dipartimento di Scienze Farmacologiche e Biomolecolari, Facoltà di Scienze del Farmaco, Università degli Studi di Milano, Milano
Scopo dell’attività
Fornire al farmacista informazioni al farmacista riguardo le necessità nutrizionali dell’anziano e le possibili opzioni riguardo l’integrazione nutrizionale.
Obiettivi formativi
Al termine del presente modulo didattico, il farmacista dovrebbe essere in grado di:
- conoscere le caratteristiche alimentari e le necessità di integrazione specifiche del paziente anziano “sano”;
- elencare gli ambiti di intervento del farmacista;
- riconoscere le patologie per le quali è necessario l’intervento medico.
Executive summary
- In Italia, si calcola che nel 2050 circa il 34% della popolazione avrà un età superiore i 65 anni.
- Sebbene non si abbia un’idea precisa dei reali fabbisogni, esistono una serie di fattori che fanno ragionevolmente pensare che il soggetto anziano sia a maggiore rischio di sviluppare delle carenza nutrizionali atte a giustificare un atteggiamento integrativo.
- L’utilizzo di complessi multivitaminici è sostanzialmente sicuro, non essendo essi responsabili di un aumento della mortalità a opera delle due più importanti categorie di malattie cronico-degenerative.
- I complessi multivitaminici non si sono dimostrati efficaci nel ridurre l’incidenza di malattia vascolare, sarebbero in grado di ridurre in parte il rischio complessivo di insorgenza di tumori, mentre non esistono invece evidenze per quel che concerne la prevenzione di qualsiasi tipo di demenza.
- Emerge un minor rischio di patologie cronico-degenerative (malattie vascolari, demenza, ecc.) in coloro che assumevano quantità elevate di pesce.
- La carenza di vitamina D porta a rachitismo nei bambini e osteomalacia negli adulti e la carenza a lungo termine contribuisce all’insorgenza di osteoporosi.
Introduzione
La proporzione di popolazione con un’età superiore ai 65 anni sta progressivamente aumentando, soprattutto nei pae-si occidentali e maggiormente sviluppati. In Italia, si calcola che nel 2050 circa il 34% della popolazione avrà un età superiore ai 65 anni.
L’impatto che tali cambiamenti demografici stanno avendo e avranno sul sistema sanitario destano senza dubbio grande interesse. L’invecchiamento, infatti, predispone fisiologicamente le persone a un elevato numero di malattie cronico-degenerative (vedi Tabella 1) che, come tali, si sviluppano progressivamente nel tempo e alla cui genesi contribuiscono innumerevoli fattori. Tra questi, non ultimi sono i fattori dietetico-nutrizionali. In tale prospettiva, e alla luce del miglioramento delle condizioni socio-economiche, anche la medicina e le politiche sanitarie hanno subito un progressivo mutamento. Da un lato, l’avere a che fare con malattie croniche comporta un incremento dei costi relativi ai trattamenti che, per forza di cose, saranno molto spesso di lunga durata. Dall’altro, sempre maggiore è l’attenzione nei confronti di tutte le strategie preventive. Sempre di più si punta, quindi, su quello che viene definito un invecchiamento “di successo”, cioè il raggiungimento della massima aspettativa di vita libera da malattie età-correlate.
Dal punto di vista nutrizionale la vita di un uomo è suddivisibile in quattro età. La prima è quella di crescita e accrescimento (dell’infanzia e adolescenza). La seconda è di consolidamento e si estende fino ai trent’anni di età; durante questa si osserva un costante incremento della massa ossea e muscolare e l’efficienza fisica è ai massimi livelli. Da qui in poi (terza età), sia il compartimento osseo sia quello muscolare assistono a un progressivo declino, mentre aumenta progressivamente il tessuto adiposo, soprattutto quello addominale. Tali cambiamenti comportano inoltre una riduzione della forza e dell’efficienza fisica. Tutti questi cambiamenti si accentuano ulteriormente a partire dai 65 anni (quarta età). In tale momento della vita, un diminuito funzionamento biologico rende il fisico anche meno capace di adattarsi ai fattori di stress e meno efficiente dal proteggersi da patologie infettive.
Si è teorizzato che una qualsiasi malattia cronica contribuisce al processo di invecchiamento, accelerandone la velocità e favorendo l’accumulo di danni biologici. In tale prospettiva, oggigiorno, si cerca di mettere a punto degli interventi che rallentino la progressione della “malattia senile”. Da qui il grande interesse nel mettere a punto e promuovere l’utilizzo di integratori alimentari finalizzati a promuovere un incremento della durata della vita priva di malattie. Si parla in tale caso di prevenzione primaria; questo sarà l’oggetto della presente recensione. Tuttavia, come vedremo nel seguente corso, le evidenze che supportano e pongono indicazione all’utilizzo di integratori alimentari sono molto limitate (vedi Tabella 2).
Ad oggi, l’intervento che sembra essere in assoluto più efficace è quello che prevede l’adozione di stili di vita salutari a partire dalla giovane età, con un approccio dietetico-comportamentale che integri i benefici di una dieta salutare (Mediterranean-like) ai vantaggi derivanti da un moderato e costante livello di attività fisica.
Alla paucità delle evidenze contribuiscono tuttavia un serie di altri fattori e limiti metodologici. Per poter dimostrare l’efficacia di un integratore alimentare è infatti necessario realizzare studi clinici di grosse dimensioni, di lunga durata e dai costi elevati. Occorre inoltre considerare la reale aderenza al trattamento assegnato al paziente, elemento da cui dipende sostanzialmente l’efficacia dell’intervento. In tal senso, il presente corso si focalizzerà solo su alcuni integratori, per i quali sono stati raccolti una quantità di validi dati scientifici tale da permetterne una reale valutazione: i complessi multivitaminici, gli acidi grassi omega-3 e la vitamina D.
Fabbisogni e carenze nutrizionali
Dagli studi a disposizione sappiamo che il fabbisogno energetico decresce di circa il 20% dai 30 ai 90 anni di età. Questo è sostanzialmente da ascriversi a una riduzione della massa muscolare scheletrica. A tale fenomeno contribuiscono diversi fattori: una più ridotta capacità anabolica (sintesi delle proteine), un ridotto apporto proteico (secondario per esempio ad alterazioni della dentizione e della soglia di percezione olfattiva e gustativa) e a una riduzione dell’attività fisica.
Per gli altri macronutrienti gli apporti dovrebbero sempre mantenersi in linea con i livelli raccomandati dalle linee guida. Meno noti, e quindi definiti, sono invece i fabbisogni di micronutrienti (e.g. vitamine e microelementi). Gli studi di popolazione frequentemente non hanno incluso campioni rappresentativi di soggetti con età superiore ai 75 anni. Ne consegue che, a eccezione di alcune vitamine, molti dei livelli raccomandati siano omologati a quelli della popolazione adulta.
Se da un lato quindi non abbiamo un’idea precisa dei reali fabbisogni, dall’altro esistono una serie di fattori che ci fanno ragionevolmente pensare che il soggetto anziano sia a maggiore rischio di sviluppare delle carenza nutrizionali atte a giustificare un atteggiamento integrativo. Diversi studi hanno infatti dimostrato che deficit nutrizionali sub-clinici (che non producono cioè sindromi carenziali conclamate) sono abbastanza comuni nel soggetto anziano. Tuttavia, anche lo stress associato a una “semplice” infezione è sufficiente ad avere un impatto negativo sul bilancio corporeo e, come sottolineato, tale categoria di soggetti ne è a maggior rischio. Il soggetto anziano presenta inoltre una serie di caratteristiche che, per via diretta o indiretta, predispongono a potenziali deficit nutrizionali (vedi Tabella 3). A ciò bisogna aggiungere una serie di modificazioni età-correlate a carico del tratto gastro-enterico che sono attualmente in corso di approfondimento.
Integratori multivitaminici
Negli ultimi dieci anni, l’uso di complessi multivitaminici è aumentato considerevolmente, soprattutto tra gli individui più anziani. Nonostante vi sia ancora incertezza riguardo il loro utilizzo a lungo termine, sia in termini di benefici sia di rischi, molti adulti (soprattutto negli Stati Uniti) prendono integratori vitaminici per prevenire le malattie croniche o per la salute generale e il benessere. L’assunzione quotidiana di un complesso multivitaminico, con la sua combinazione di nutrienti essenziali che rispondono ai livelli minimi raccomandati di assunzione alimentare, avrebbe come scopo quello di replicare più ampiamente i sani modelli alimentari che, ricchi in frutta e verdura, sono stati associati in diversi studi epidemiologici a un ridotto rischio di malattie degenerative, prime fra tutte le malattie cardio- e cerebro-vascolari e i tumori.
Nei confronti delle malattie cardiovascolari, la ricerca di base indica diversi meccanismi con i quali micronutrienti specifici contenuti nei complessi multivitaminici possono avere un ruolo nella prevenzione: modifiche nell’attività piastrinica, riduzioni del potenziale trombotico e modifiche nella reattività vascolare. Nei confronti della patologia neoplastica tali nutrienti avrebbero invece un ruolo predominante nel mantenimento dell’efficienza e della vitalità cellulare contenendo il danno secondario allo stress ossidativo e potenziando i meccanismi di riparazione dei danni cellulari dovuti a questo ultimo.
Le recenti sintesi della letteratura (vedi Tabella 4) a disposizione sull’argomento da un lato mostrano che l’utilizzo di complessi multivitaminici è sostanzialmente sicuro, non essendo essi responsabili di un aumento della mortalità a opera delle due più importanti categorie di malattie cronico-degenerative. Tuttavia, dall’altro lato, gli stessi integratori di vitamine non si sono dimostrati efficaci nel ridurre significativamente l’incidenza di qualsiasi tipo di malattia vascolare (cardiaca o cerebrale). Il loro impiego sarebbe però in grado di ridurre in parte il rischio complessivo di insorgenza di tumori (evidenza di grado A), in particolare quelli di natura epiteliale (l’evidenza sulla singola tipologia di neoplasia è invece limitata o non riconosciuta). Non esistono invece evidenze per quel che concerne la prevenzione di qualsiasi tipo di demenza.
Infine, resta da sottolineare anche la sostanziale mancanza di efficacia da parte di supplementi di singole vitamine nei confronti delle malattie vascolari e del declino delle funzioni cognitive. In questi ultimi casi, evidenze preliminari suggeriscono (dati da confermare con altri studi) un possibile beneficio solo in categorie di pazienti a elevato rischio.
Esistono varie ragioni che possano giustificare tali evidenze. Una spiegazione può essere che le popolazioni oggetto di studio sono già ben nutrite, cioè non presentano dei deficit nutrizionali che necessitino di essere colmati/compensati dall’utilizzo dei suddetti integratori. Il loro impiego è infatti particolarmente popolare nei paesi sviluppati, dove le carenze nutrizionali sono meno diffuse rispetto ai paesi in via di sviluppo; ciò significa che gli individui sono probabilmente più in grado di soddisfare i fabbisogni giornalieri dalle sole fonti alimentari. D’altro canto, gli individui che credono di ricavare massimi benefici dagli integratori possono essere meno propensi a impegnarsi in altri comportamenti di prevenzione sanitaria.
Acidi grassi omega-3
Gli omega-3 sono acidi grassi polinsaturi (PolyUnsaturated Fatty Acid, PUFA) essenziali. Polinsaturi vuol dire che, all’interno della struttura molecolare, gli atomi di carbonio sono fra loro legati da un elevato numero di doppi legami. La caratteristica “essenziale” comporta invece due aspetti: il primo è che l’organismo umano non è in grado di sintetizzarli; il secondo è che sono indispensabili all’uomo per il benessere e per la sua stessa sopravvivenza.
Gli acidi grassi omega-3 effettivamente utili all’uomo sono quelli a catena lunga (vedi Figura 1); essi sono l’acido eicosapentaenoico (EicosaPentaenoic Acid,EPA) e l’acido docosaesaenoico (DocosaHexaenoic Acid, DHA). L’EPA e il DHA, di origine ittica marina, si assumono sostanzialmente attraverso il consumo di pesce. Nell’organismo esistono tuttavia enzimi capaci di allungare la catena carboniosa di acidi grassi come l’a-linolenico (a-Linolenic Acid, ALA) reperibili anche da alimenti di origine vegetale. Tuttavia, soltanto una quota ridottissima di acido linolenico può essere trasformata in EPA e DHA. Per questo motivo è necessario introdurre questi acidi grassi attraverso l’alimentazione.
Il razionale di un’integrazione alimentare con PUFA della serie omega-3 risiede nell’evidenza raccolta da precedenti studi dai quali si è osservato un minor rischio di patologie cronico-degenerative (malattie vascolari, demenza, ecc.) in coloro che assumevano maggiori quantità di pesce. Se ne è dedotto che in alcuni casi, quando l’apporto alimentare risulta insufficiente, gli integratori ad hoc possano essere uno strumento per riequilibrare il profilo alimentare e ristabilire un equilibrio che con la sola dieta non si riesce ad ottenere/mantenere. Le variazioni nel regime alimentare avvenute nel corso dell’ultimo secolo si associano a un significativo aumento del consumo di acidi grassi saturi e di acidi grassi polinsaturi omega-6 con una concomitante riduzione dell’apporto di PUFA omega-3.
Gli acidi grassi omega-3 sono una componente fondamentale delle membrane cellulari dell’organismo. La presenza di molti doppi legami conferisce a questi composti una conformazione più ingombrante che determina una maggiore fluidità delle membrane biologiche nelle quali sono inseriti; molti degli effetti positivi correlati alla presenza di acidi grassi omega-3 all’interno delle membrane sono da attribuire all’accresciuta fluidità delle membrane stesse (e.g. comunicazione tra le cellule, risposta all’insulina, ecc.).
Pensando all’individuo anziano, le potenziali e benefiche azioni degli acidi grassi omega-3 possono essere le seguenti:
antitrombotica: attraverso la ridotta tendenza all’aggregazione piastrinica;
antiaritmica;
antinfiammatoria;
immuno-modulante: tramite la capacità di modulare la risposta immunitaria e l’attività dei fattori di crescita per gli effetti sulle cellule e sulla loro proliferazione (neoplasie);
sul cervello (il cervello è costituito in larga parte da acidi grassi essenziali, che svolgono un ruolo fondamentale nella trasmissione del segnale nervoso).
Il trattamento con PUFA della serie omega-3 è stato supportato da una serie di studi clinici randomizzati e confutato da altri. Tuttavia, una review di sintesi delle evidenze attuali a cura di Ricos e coll. depone per la mancanza di un globale effetto significativo. Anche se il loro meccanismo d’azione non è chiaro, il loro potenziale effetto sugli eventi cardiovascolari viene ascritto alla capacità di ridurre i livelli di trigliceridi, prevenire gravi aritmie o anche diminuire l’aggregazione piastrinica e la pressione arteriosa. Purtroppo la quasi totalità degli studi ha indagato il loro effetto nei confronti della prevenzione secondaria (cioè di un nuovo evento cardiovascolare in chi ne ha già avuto uno). Solo recentemente uno studio di prevenzione primaria di grandi dimensioni ha messo in evidenza una mancata efficacia; il loro utilizzo sistematico non è quindi supportato da evidenze.
Per quel che concerne l’utilizzo di omega-3 e le attività del sistema nervoso, tali composti non solo sarebbero in grado di migliorare la comunicazione tra le cellule ma anche di aumentare i livelli cerebrali di alcuni fattori di crescita.
Tuttavia, gli studi effettuati non hanno mostrato benefici in termini di prevenzione del declino delle funzioni cognitive in anziani cognitivamente sani. Non è tuttavia da escludere che studi di maggiore durata possano portare a identificare un reale effetto dei PUFA nel prevenire il declino cognitivo nelle persone anziane.
Adeguati livelli di omega-3 sembrano essere importanti anche nel mantenere un corretto tono dell’umore e il loro impiego è stato proposto per il trattamento di disturbi quali la depressione e l’ansia. In tale ambito, l’analisi degli studi disponibili riporta che il positivo effetto sulla prevenzione primaria della depressione sarebbe da ascriversi alla supplementazione con EPA e non a quella con DHA.
Per quel che concerne la supplementazione con PUFA, resta da sottolineare che non esiste attualmente alcuna prova a sostegno di tali composti nella prevenzione o rallentamento della progressione della degenerazione maculare retinica.
Gli acidi grassi omega-3 sono generalmente ben tollerati e gli effetti collaterali più comunemente riportati sono rari, di lieve entità e a carico del sistema gastro-intestinale (difficoltà alla digestione o diarrea). Altri studi di più lunga durata sono obbligatori al fine di caratterizzare ulteriormente tali composti.
Oggi in commercio esistono numerosi integratori a base di PUFA omega-3, ma non tutti sono uguali. L’acquirente deve essere informato che la qualità è rilevabile attraverso certificazioni di enti riconosciuti a livello internazionale. Innanzitutto, per garantire una sana e corretta integrazione, il prodotto deve basarsi su materie prime di qualità superiore, quale olio di pesce ottenuto per distillazione molecolare (metodica che garantisce l’assenza di contaminanti). Un integratore sicuro, eccellente e salutare dovrebbe essere insignito delle 5 stelle da IFOS (International Fish Oil Standards Program), ente indipendente canadese, riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (i risultati delle analisi sono pubblici e consultabili sul sito www.ifos-program.com).
Infine, una giusta informazione è quella della dose a cui tali composti dovrebbero essere assunti. Se da un lato, infatti, i PUFA sono visti come molecole benefiche, dall’altro bisogna sottolineare che, proprio per le loro caratteristiche molecolari (presenza dei doppi legami), tali composti sono maggiormente suscettibili allo stress ossidativo e all’azione dei radicali liberi. Studi specifici hanno sottolineato che nell’individuo anziano, a prescindere dallo scopo dell’integrazione, la dose non dovrebbe essere superiore a 1 g/die.
Vitamina D
Una gran parte della popolazione non soddisfa i fabbisogni quotidiani di vitamina D perché questa viene sintetizzata principalmente quando la pelle è esposta ai raggi ultravioletti B (UVB). Oggigiorno, infatti, la vita è associata a un ridotta esposizione al sole (si espone normalmente meno del 5% della nostra pelle in ragione dell’abbigliamento); l’uso di creme contenenti filtri solari UVB-bloccanti, se è positivo da un lato, dall’altro comporta una significativa riduzione della produzione di vitamina D. Ciò senza contare che trascorriamo buona parte della giornata in luoghi chiusi e che i vetri delle finestre bloccano proprie quelle frequenze dello spettro di radiazioni responsabili della produzione.
Brevi esposizioni (di pochi minuti) alle radiazione UV possono essere sufficiente a produrre vitamina D, visto che l’esposizione prolungata porta alla produzione di steroli che hanno poco effetto sul metabolismo minerale osseo. Per le persone con la pelle chiara, adeguati livelli di vitamina D possono essere mantenuti in estate da una passeggiata quotidiana all’aperto con le braccia esposte per 6-7 minuti (a metà mattina o metà pomeriggio). In inverno il compito è più difficile, ma camminare a piedi fuori all’ora di pranzo per circa 20 minuti quasi tutti i giorni, con la maggior quantità possibile di pelle nuda esposta, è probabile che sia utile.
Gli individui di pelle scura richiedono una maggior esposizione al sole per avere la stessa produzione di vitamina D (tempi 3-6 volte più lunghi) e lo stesso vale per le persone più anziane.
Gruppi di adulti ad alto rischio di carenza di vitamina D sono mostrati nella Tabella 5 a pag. 23.
Il termine “vitamina D” viene generalmente applicato a due molecole: il colecalciferolo e l’ergocalciferolo (vedi Figura 2 di pag. 24). Il colecalciferolo (vitamina D3) è formato attraverso l’azione dei raggi UVB (lunghezza d’onda 290-315 nm) a partire dal 7-deidrocolesterolo nella pelle. Questo processo è il principale determinante dello stato della vitamina D, poiché per la maggior parte degli adulti non è possibile ricavare più del 5-10% del fabbisogno da fonti alimentari (il contenuto è significativo solo nel pesce azzurro).
L’altra forma di vitamina D, l’ergocalciferolo (vitamina D2), è prodotta da irradiazione UV dell’ergosterolo delle piante (la forma del regno vegetale è invece quasi assente nella dieta). Entrambe le forme di vitamina D sono trasportate al fegato e metabolizzate a 25-idrossi-colecalciferolo (25-Hydroxyvitamin D, 25-OHD). Questa è la principale forma circolante e il metabolita ordinariamente dosato per valutare complessivamente lo stato della vitamina D. Un’ulteriore idrossilazione ha luogo nel rene per formare il composto biologicamente attivo 1,25-di-idrossi-colecalciferolo, noto anche come calcitriolo.
Lo stato corporeo della vitamina D è ormai diventato un’importante tematica di salute pubblica, soprattutto alla luce del numero crescente di condizioni mediche associate a bassi livelli di vitamina D e alle indicazioni che livelli circolanti più elevati sono richiesti per una salute ottimale. La supplementazione con la vitamina D può essere fatta sia con la vitamina D2 sia con la D3, ma la disponibilità commerciale di queste due formulazioni è molto diversa da una nazione all’altra. Una recente meta-analisi sottolinea tuttavia che la vitamina D3 è più efficace nell’innalzare i livelli sierici di 25-OHD, e quindi dovrebbe essere la forma di prima scelta per la supplementazione.
Il ruolo della vitamina D nel mantenere normale i livelli corporei di calcio e fosforo è ben consolidato. La sua carenza porta a rachitismo nei bambini e osteomalacia negli adulti e la carenza a lungo termine contribuisce all’insorgenza di osteoporosi. Più recentemente, la carenza di vitamina D è stata associata ad altre malattie croniche, tra cui quelle cardiovascolari, autoimmuni e i tumori.
Vitamina D e sistema muscolo-scheletrico
L’osteoporosi è una malattia scheletrica sistemica caratterizzata da una bassa massa ossea e un deterioramento della microarchitettura del tessuto osseo.
La massa ossea, dopo il raggiungimento della maturità scheletrica, è la risultante dell’entità del picco di massa ossea raggiunta nelle fasi di crescita e consolidamento dello scheletro e della velocità di perdita di tessuto osseo condizionata dall’invecchiamento e, nella donna, anche dalla menopausa (vedi Figura 3 di pag. 25). Nell’infanzia e nell’adolescenza il tessuto osseo va incontro a complesse fasi di sviluppo e di crescita che si concludono intorno ai 15-20 anni. Il consolidamento strutturale dello scheletro, almeno per alcuni segmenti ossei, si estende probabilmente anche alla terza decade di vita, determinando, in tale periodo, un ulteriore incremento di massa ossea, fino al raggiungimento del picco di massa ossea. La perdita di massa ossea inizia già a partire dalla quarta decade di vita con una evoluzione progressiva e sostenuta, nell’età più avanzata, dall’accentuarsi di particolari aspetti metabolici legati all’invecchiamento, primo fra tutti la riduzione progressiva dell’attività fisica.
L’osteoporosi colpisce soprattutto le donne in post-menopausa, ma anche gli uomini, in forme sia primarie sia secondarie. Circa il 28% della popolazione dopo i 60 anni e circa il 42% della popolazione dopo i 70 anni sarebbe, infatti, affetto dalla malattia.
L’aspetto clinico più rilevante dell’osteo-porosi è l’aumento della fragilità ossea e la conseguente predisposizione alle fratture che si verificano principalmente a carico dell’anca (vedi Tabella 6 di pag. 23), delle vertebre e del radio distale (polso).
Sono le fratture dell’anca a sostenere i maggiori costi diretti per i servizi sanitari; si verificano principalmente negli anziani e danno luogo a sostanziale morbilità e mortalità. Questo ha un elevato impatto se si considera il progressivo aumento della vita media e l’invecchiamento della popolazione (vedi Tabella 7). Le fratture osteoporotiche delle vertebre e dell’avambraccio sono di minore significato economico, ma possono anche esse dare luogo a una significativa morbilità. Le conseguenze delle fratture vertebrali includono mal di schiena, disabilità, cifosi e perdita di altezza. Le fratture vertebrali causano una significativa diminuzione della qualità della vita, anche se l’impatto è inferiore a quelle dell’anca.
La diagnosi precoce di osteoporosi può essere effettuata a qualsiasi età misurando la densità minerale ossea, al fine di individuare le persone che hanno bisogno di un intervento per la prevenzione delle fratture.
Un’approfondita analisi degli studi clinici randomizzati-controllati a disposizione in letteratura ha recentemente permesso di chiarire quale possa essere il ruolo e la modalità di realizzazione della supplementazione con vitamina D nella prevenzione delle fratture in soggetti anziani (≥ 65 anni).
A un dosaggio di 800 UI/die è possibile ottenere una riduzione del rischio di fratture dell’anca del 30% e una riduzione del 15% per il rischio di qualsiasi tipo di frattura non vertebrale. Tale dosaggio di impiego si è dimostro inoltre sicuro (privo di effetti collaterali) e rappresenta quindi la reale raccomandazione. I benefici sarebbero inoltre maggiori se alla supplementazione con vitamina D si associasse anche un piccola quota di calcio (ad es., 500 mg/die) al cui assorbimento la stessa vitamina D contribuirebbe. Il vantaggio derivante dalla supplementazione sarebbe inoltre indipendente dai livelli sierici circolanti di vitamina D (tale quindi anche in coloro che hanno livelli normali) e dall’ambiente dove vive il soggetto, sebbene superiore in quello istituzionalizzato rispetto a quello che vive in comunità (free-living). Tuttavia, l’evidenza è raccolta soprattutto tra donne in età post-menopausale e l’entità dell’efficacia nell’individuo di sesso maschile è realmente da definire.
Resta da sottolineare che l’efficacia della vitamina D nella prevenzione delle fratture è da ascriversi a un duplice effetto sull’incremento sia della densità (e qualità) dell’osso sia della forza muscolare. L’incremento della forza si tradurrebbe in una riduzione del rischio di caduta (e quindi di conseguente frattura traumatica). Anche per tale endpoint clinico la dose raccomandata è di >700 UI/die con una riduzione del rischio di circa il 20%.
Vitamina D e future potenziali prospettive di supplementazione
Il sistema cardiovascolare è un tessuto bersaglio per la vitamina D; il suo recettore, così come gli enzimi che la metabolizzano, è infatti abbondantemente espresso in tutti i tessuti che hanno rilevanza per la patogenesi delle malattie cardiovascolari. Gli studi osservazionali confermano che bassi livelli sierici sono associati a fattori di rischio cardiovascolare (ad esempio, diabete mellito, dislipidemia e ipertensione arteriosa). I risultati di studi randomizzati-controllati sulla supplementazione di vitamina D e rischio cardiovascolare sono tuttavia contrastanti. Sono quindi necessari ulteriori studi randomizzati, considerando tuttavia che il potenziale preventivo della supplementazione sembra essere limitato ai pazienti che presentano sia ridotti livelli di 25-OHD sia un certo rischio cardiovascolare (ad esempio, ipertensione arteriosa). Alcuni studi randomizzati di grandi dimensioni sulla supplementazione di vitamina D e rischio cardiovascolare sono attualmente in corso e i loro risultati saranno disponibili per gli anni 2017-2020. Tra i numerosi importanti tessuti bersaglio della vitamina D si trovano anche le componenti del sistema immunitario. La stretta relazione con la produzione del metabolita attivo di vitamina D per esposizione a raggi UVB è ben noto da anni. Basti pensare al trattamento, in tempi antichi, dei pazienti con tubercolosi. Studi recenti preliminari hanno tuttavia dimostrato un possibile impiego in pazienti affetti da frequenti infezioni del tratto respiratorio; la supplementazione è stata in grado di ridurre del 20% circa le infezioni e del 50% il numero di giorni di terapia antibiotica.
Infine, ci sono diversi articoli che riportano i risultati di studi randomizzati-controllati e rischio di incidenza di neoplasie. I dati sono suggestivi di un potenziale ruolo protettivo.
Tuttavia, per tutte queste evidenze bisogna osservare il limite di essere state raccolte in popolazioni di soggetti in cui realmente, in termini di età (la media è di circa 50 anni) e durata della supplementazione, sia possibile considerare un impatto di prevenzione positivo. La reale utilità nell’individuo anziano è ancora da stabilire. Infine, si incominciano ad avere a disposizione dati sul possibile utilizzo nel trattamento della depressione in soggetti anziani. Il razionale sarebbe l’osservazione che il rischio di patologie come la depressione sembra essere associato alle stagioni e alla latitudine (e la conseguente differente esposizione al sole). I dati sono tuttavia preliminari; difficile poter trarre delle conclusioni ma a oggi non sembra sussistere l’utilità di un impiego di vitamina D a bassi dosaggi (400 UI/die) nella prevenzione di questa patologia.
Bibliografia
- http://www.salute.gov.it/
- http://www.istat.it/
- Bertone-Johnson ER et al. Vitamin D supplementation and depression in the women's health initiative calcium and vitamin D trial. Am J Epidemiol 2012;176:1-13.
- Bischoff-Ferrari HA et al. Fall prevention with supplemental and active forms of vitamin D: a metaanalysis of randomised controlled trials. BMJ 2009;339:b3692.
- Cazzola R et al. Age- and dose-dependent effects of an eicosapentaenoic acid-rich oil on cardiovascular risk factors in healthy male subjects. Atherosclerosis 2007;193:159-67.
- Chung M et al. Vitamin D with or without calcium supplementation for prevention of cancer and fractures: an updated meta-analysis for the U.S. Preventive Services Task Force. Ann Intern Med 2011;155:827-38.
- Disease-Related Malnutrition: An Evidence Based Approach to Treatment: NHBS - RJ Stratton, CJ Green and M Elia, CABI Publishing 2003.
- Gaziano JM et al. Multivitamins in the prevention of cancer in men: the Physicians' Health Study II randomized controlled trial. JAMA 2012;308:1871-80.
- Gennari C. Calcium and vitamin D nutrition and bone disease of the elderly. Public Health Nutr 2001;4:547-59.
- Lawrenson JG, Evans JR. Omega 3 fatty acids for preventing or slowing the progression of age-related macular degeneration. Cochrane Database Syst Rev 2012;11:CD010015.
- Macpherson H, Pipingas A, Pase MP. Multivitamin-multimineral supplementation and mortality: a meta-analysis of randomized controlled trials. Am J Clin Nutr 2013;97:437-44.
- Martins JG. EPA but not DHA appears to be responsible for the efficacy of omega-3 long chain polyunsaturated fatty acid supplementation in depression: evidence from a meta-analysis of randomized controlled trials. J Am Coll Nutr 2009;28:525-42.
- Pludowski P et al. Vitamin D effects on musculoskeletal health, immunity, autoimmunity, cardiovascular disease, cancer, fertility, pregnancy, dementia and mortality-A review of recent evidence. Autoimmun Rev 2013.
- Rayner CK, Horowitz M. Physiology of the ageing gut. Curr Opin Clin Nutr Metab Care 2013;16:33-8.
- Risk and Prevention Study Collaborative Group. n-3 fatty acids in patients with multiple cardiovascular risk factors. N Engl J Med 2013;368:1800-8.
- Rizos EC et al. Association between omega-3 fatty acid supplementation and risk of major cardiovascular disease events: a systematic review and meta-analysis. JAMA 2012;308:1024-33.
- Sesso HD et al. Multivitamins in the prevention of cardiovascular disease in men: the Physicians' Health Study II randomized controlled trial. JAMA 2012;308:1751-60.
- Sofi F et al. Accruing evidence on benefits of adherence to the Mediterranean diet on health: an updated systematic review and meta-analysis. Am J Clin Nutr 2010;92:1189-96.
- Sobotka L. Basics in clinical nutrition (ed). Third edition. Praga: Galen 2004.
- Souberbielle JC et al. Vitamin D and musculoskeletal health, cardiovascular disease, autoimmunity and cancer: Recommendations for clinical practice. Autoimmun Rev 2010;9:709-15.
- Sublette ME et al. Meta-analysis of the effects of eicosapentaenoic acid (EPA) in clinical trials in depression. J Clin Psychiatry 2011;72:1577-84.
- Sydenham E, Dangour AD, Lim WS. Omega 3 fatty acid for the prevention of cognitive decline and dementia. Cochrane Database Syst Rev 2012;6:CD005379.
- Tripkovic L et al. Comparison of vitamin D2 and vitamin D3 supplementation in raising serum 25-hydroxyvitamin D status: a systematic review and meta-analysis. Am J Clin Nutr 2012;95:1357-64.
- Troesch B et al. Dietary surveys indicate vitamin intakes below recommendations are common in representative Western countries. Br J Nutr 2012;108:692-8.