Enfisema polmonare: aggiornamento clinico

Revisione scientifica:Dr.ssa Valeria Giunta, Specialista in Malattie dell’Apparato Respiratorio, Ospedale San Giuseppe – Gruppo Multimedica – Milano

 

Scopo:

Analizzare eziologia, sintomi, diagnosi e trattamento dei pazienti affetti da enfisema polmonare.

Obiettivi:

Dopo aver completato la seguente monografia d’aggiornamento, il farmacista dovrebbe essere in grado di:

  • descrivere i fattori di rischio associati all’enfisema polmonare;
  • identificare segni e sintomi dell’enfisema polmonare;
  • spiegare l’origine e l’evoluzione della malattia;
  • discutere le terapie farmacologiche e non farmacologiche attualmente disponibili per i pazienti affetti da enfisema polmonare.

Executive summary

In Italia attualmente sette milioni di persone soffrono di bronco-pneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), di cui l’enfisema è una manifestazione, con un’incidenza di 300.000 nuovi casi/anno.

Il principale fattore di rischio per questa patologia è il fumo di sigaretta, responsabile di circa il 90% di tutti i casi. Altri fattori di rischio comprendono il deficit di alfa1-antitripsina, l’inquinamento atmosferico, le polveri sottili e i prodotti chimici usati in alcuni ambiti lavorativi. Infine anche un alterato accrescimento polmonare può essere causa di malattia.

Il trattamento, farmacologico e non, ha come obiettivo principale la riduzione dei sintomi e della frequenza delle riacutizzazioni, in modo tale da rallentare la progressione di malattia.

La ginnastica respiratoria quotidiana in pazienti affetti da BPCO limita l’affaticamento e la dispnea e aumenta la tolleranza allo sforzo.

Introduzione

Nel 1698, il medico John Floyer descriveva per la prima volta l’enfisema come “bolle d’aria dilatate” disseminate all’interno del tessuto polmonare per il resto sano. È curioso ricordare come Floyer abbia raccolto i dati effettuando autopsie sui cavalli, in quanto in quell’epoca la pratica dell’autopsia non veniva effettuata sull’uomo. Eppure, anche dopo 300 anni, la sua descrizione delle anomalie del tessuto polmonare, aggiornata alla terminologia moderna, rappresenta una pietra miliare nella diagnosi dell’enfisema1. Questa malattia fa parte di una condizione patologica a carico del polmone denominata bronco-pneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), che comprende anche la bronchite cronica2.

La diagnosi di enfisema si intreccia spesso con manifestazioni cliniche di bronchite e pertanto, in passato, il processo diagnostico era piuttosto difficoltoso. Le attuali linee guida non differenziano tra bronchite cronica ed enfisema ma adottano, invece, un unico trattamento per le cosiddette BPCO.

 

Eziologia, fisiopatologia e diagnosi

Attualmente 7 milioni di italiani sono affetti da BPCO, con un’incidenza di 300.000 nuovi casi/anno. Secondo i CDC (Centers for Disease Control and Prevention), nel 2010 la prevalenza di BPCO negli Stati Uniti d’America era di circa 4,3 milioni di individui (≈1,9%) con 11.000 decessi l’anno3. Il principale fattore di rischio è il fumo di sigaretta, responsabile di circa il 90% dei casi. Altri fattori di rischio comprendono il deficit di alfa1-antitripsina, l’inquinamento atmosferico, le polveri sottili, i prodotti chimici usati in alcuni ambienti lavorativi e infine un alterato accrescimento polmonare2. Al fine di raccogliere dati sulla relazione esistente tra fumo di sigaretta ed enfisema, sono state condotte una revisione sistematica e una meta-analisi su oltre 200 studi di pazienti affetti da BPCO; i risultati indicavano che il rischio relativo tra fumo ed enfisema era di 4,87 (2,83-8,41) nel gruppo dei fumatori e di 3,52 (2,51-4,94) nel gruppo degli ex-fumatori, con una probabilità di sviluppare la malattia rispettivamente di 5 e 3 volte rispetto ai non fumatori4.

Secondo l’indagine Doxa, commissionata dall’Osservatorio Fumo Alcol e Droga (OssFAD) dell’Istituto Superiore di Sanità, in collaborazione con l’Istituto Mario Negri, in Italia nel 2012 il 20,8% della popolazione con più di 15 anni risulta fumatrice, per un totale di 10,8 milioni di persone; di questi 6,1 milioni sono uomini (24,6%) e 4,7 milioni donne (17,2%), con una media di 13 sigarette pro-capite al giorno. Il 15% dei fumatori sviluppa nel tempo la BPCO e tra questi solo il 3% viene colpito da enfisema5.

Oltre al fumo di sigaretta esistono altre cause, più rare, scatenanti la malattia. Tra queste troviamo il deficit di alfa1-antitripsina6, una formarara di origine genetica, pertanto ereditaria, che riguarda meno dell’1% della popolazione affetta. Al di fuori dei Paesi industrializzati, inoltre, un altro importante fattore di rischio è l’uso di biomasse, ad esempio piante o scarti agricoli, come combustibili. La malattia generalmente colpisce le donne che usano questi prodotti nelle attività quotidiane e che sono così esposte in modo eccessivo all’inalazione di irritanti delle vie respiratorie2.

L’enfisema è una malattia progressiva, irreversibile e destruente delle pareti alveolari e del tessuto parenchimale, che riduce la capacità e l’efficienza del polmone di scambiare l’ossigeno inalato. L’enfisema è definito, in termini anatomo-patologici, come dilatazione anomala e permanente degli spazi aerei posti distalmente ai bronchioli terminali (lobuli), determinata da alterazioni delle pareti alveolari e che si manifesta in assenza di fenomeni estesi di rimaneggiamento fibrotico2. La malattia è caratterizzata da un’infiammazione cronica che determina alterazioni irreversibili che portano a una sempre maggiore ostruzione al flusso aereo. Nella maggior parte dei casi l’infiammazione è determinata dall’inalazione di particelle che fungono da noxa patogena, la quale scatena l’attività di diversi mediatori chimici pro-infiammatori tra cui il tumor necrosis factor alpha (TNF-a; fattore di necrosi tumorale alfa), l’interleuchina 8, il leucotriene B4, gli ossidanti e le proteasi7. Questi mediatori vengono neutralizzati dal sistema anti-infiammatorio antiproteasi, ad esempio l’alfa1-antitripsina, che inibisce le proteasi. Un deficit genetico di questa glicoproteina enzimatica può portare a una distruzione prematura del tessuto polmonare e all’insorgenza di enfisema a un età più precoce rispetto a quella dovuta ad altre cause.

Come descritto precedentemente, nella maggior parte dei casi l’enfisema è causato dal fumo di sigaretta che distrugge nel lungo termine le cellule del parenchima polmonare. Si crea un circolo vizioso di irritazione, isolamento cellulare e rigenerazione che indebolisce il tessuto polmonare e compromette i fisiologici meccanismi di difesa dell’organismo umano. Il processo infiammatorio porta alla riduzione del calibro delle vie aeree distali con conseguente riduzione del FEV1 (Forced Expiratory Volume, volume espiratorio forzato nel primo secondo) o della capacità polmonare durante manovra forzata, denominata FVC (Forced Vital Capacity, capacità vitale forzata)2.L’evoluzione di tale processo porta alla distruzione del parenchima polmonare, dei bronchioli terminali e degli alveoli, che va a sommarsi all’ostruzione al flusso aereo e alla riduzione della capacità di trasferimento dell’ossigeno. Si verifica pertanto una drastica riduzione della superficie alveolare, che è deputata agli scambi gassosi di ossigeno e anidride carbonica, con perdita della loro efficienza6.

Gli alveoli polmonari possono essere paragonati a un grappolo d’uva nel quale i singoli acini sono collegati fra loro tramite dei dotti, presentando però ciascuno una superficie propria indipendente. La loro forma assomiglia a tante piccole sfere interconnesse da bronchioli e in questo modo costituiscono un’ampia superficie adibita allo scambio gassoso.

Quando gli alveoli e il parenchima polmonare vengono danneggiati o distrutti, le singole sfere si rompono, lasciando solo tessuto connettivo; si creano in questo modo ampie cavità con perdita funzionale del polmone, parziale o totale. La presenza di ampie cavità, che sostituiscono il normale parenchima polmonare, fa sì che i polmoni dei pazienti enfisematosi abbiano un volume totale maggiore ma un’efficienza ridotta.

L’insieme delle aree danneggiate e dei rimaneggiamenti del tessuto connettivo portano anche alla riduzione o alla perdita completa del flusso aereo. Come già descritto precedentemente, il segno distintivo dell’enfisema risiede proprio nella formazione di queste ampie cavità. La riduzione della efficienza polmonare è tanto maggiore quanto maggiore è il numero dei bronchioli terminali e degli alveoli interessati da tale processo. Da ciò deriva la gravità della malattia.

La diagnosi si effettua tenendo in considerazione diversi fattori, tra cui un’anamnesi positiva per abitudine tabagica o per esposizione professionale a sostanze irritanti, una clinica compatibile con sintomi quali tosse e/o dispnea, accertamenti suggestivi e/o diagnostici di malattia quali radiografia del torace, concentrazione sierica di alfa1-antitripsina, emogasanalisi arteriosa e spirometria2,3. I sintomi della malattia rimangono lievi per anni; pertanto la prima valutazione medica è spesso tardiva, quando è già presente insufficienza respiratoria.

Le linee guida per il trattamento dell’enfisema sono raccolte nel programma sanitario intitolato Global Initiative for Chronic Obstructive Lung Disease (GOLD, Progetto Mondiale sulla Bronco-Pneumopatia Cronica Ostruttiva)2. La spirometria è il test diagnostico gold standard e valuta la funzionalità respiratoria in tutte le diverse manifestazioni di BPCO, compreso l’enfisema. Le vie respiratorie vengono definite ostruite quando il rapporto tra FEV1 e FVC è inferiore al 70%. Il livello di gravità dell’ostruzione, una volta presente, si quantifica in base all’entità della riduzione del FEV1 in percentuale rispetto al valore teorico e si classifica come BPCO di grado lieve - moderata - grave - molto grave. Per effettuare una diagnosi accurata il solo esame spirometrico non è sufficiente. Un quadro completo dello stato di salute del paziente si ottiene con una valutazione delle comorbidità e delle complicanze presenti. L’esame obiettivo dei pazienti affetti da una forma lieve di malattia può essere negativo. Nelle forme avanzate, invece, si hanno diverse manifestazioni cliniche come la riduzione dell’indice di massa corporea (BMI, Body Mass Index), la presenza di torace a botte dovuto a iperinflazione alveolare, presenza di cianosi distale e un respiro superficiale e accelerato8.

È importante ricordare che i pazienti enfisematosi possono presentare diverse comorbidità che vanno a interferire sulla scelta terapeutica, quali una ridotta risposta immunitaria o cardiopatie. Inoltre, l’enfisema raramente si presenta come patologia singola a carico del sistema respiratorio: è spesso associata ad altre malattie delle vie aeree, come ad esempio l’iperreattività bronchiale in caso di asma o i processi infiammatori cronici delle bronchiti. Tutto ciò rende più complessa la terapia.

 

Terapia farmacologica

L’enfisema è una patologia irreversibile, pertanto il trattamento ha l’obiettivo di rallentare la progressione di malattia. I trattamenti farmacologici e non farmacologici si focalizzano sulla riduzione dei sintomi e del numero di riacutizzazioni di malattia. Altri obiettivi comprendono l’aumento della tolleranza all’esercizio fisico e la riduzione di morbilità e di mortalità2,9. I pazienti affetti da enfisema dovrebbero essere informati del loro stato di salute, delle soluzioni terapeutiche attuali e delle possibili strategie future utili a combattere il declino della funzionalità polmonare. Grande attenzione deve comunque essere posta sulla riduzione o eliminazione dei fattori di rischio.

 

Disassuefazione dal fumo di sigaretta

L’esposizione al fumo di tabacco è il fattore di rischio principale per lo sviluppo dell’enfisema. La maggior parte dei pazienti sono fumatori di lunga data e continuano a fumare nonostante comprendano i rischi e i danni che ciò comporta alla loro salute. Gli operatori sanitari, compresi i farmacisti, dovrebbero costantemente sottolineare l’importanza di smettere di fumare ai pazienti fumatori e suggerire come metterlo in pratica10. Prima di proseguire il trattamento occorre valutare la volontà del paziente di abbandonare l’abitudine tabagica nonché tenere in considerazione i tentativi precedentemente effettuati. Le linee guida dell’Ufficio per la Salute Pubblica degli USA definiscono le “5 A” (Ask – Chiedere, Advise – Consigliare, Assess – Valutare, Assist – Aiutare, Arrange - Pianificare) del processo di sospensione del fumo11:

  • chiedere informazioni ai pazienti circa le loro abitudini tabagiche per identificare i potenziali candidati;
  • consigliare ai fumatori di sospendere il vizio;
  • valutare il desiderio del paziente di smettere di fumare;
  • aiutare i pazienti a rimanere motivati e seguirli nel trattamento;
  • pianificare le visite di follow-up e altre forme di monitoraggio.

 

La terapia farmacologica raddoppia l’efficacia dei tentativi della cessazione dell’abitudine tabagica e, in assenza di controindicazioni, andrebbe consigliata a tutti i pazienti affetti da enfisema12.

La terapia farmacologica di prima linea comprende la vareniclina, il bupropione e i prodotti sostitutivi della nicotina (vedi Tabella 1)6,12. La terapia di seconda linea, che comprende la clonidina e la nortriptilina, non è supportata da sufficienti dati scientifici e può causare un maggior numero di effetti collaterali. Tuttavia può essere una valida alternativa qualora le soluzioni terapeutiche di prima linea non sortissero l’effetto desiderato o le comorbidità presenti possano aver beneficio dai farmaci di seconda linea. Utilizzare un approccio comportamentale per diminuire gli stimoli che inducono al fumo, sviluppare un sistema di supporto sociale che possa rafforzare la volontà della disuassefazione, il coinvolgimento della famiglia e di altre persone che sono nella stessa condizione, nonché le sessioni di follow-up rappresentano delle condizioni di fondamentale importanza per raggiungere l’obiettivo e mantenerlo nel tempo con successo.

 

Broncodilatatori, corticosteroidi e inibitori della fosfodiesterasi

Secondo le linee guida, i broncodilatatori sono i farmaci d’eccellenza per il trattamento dell’enfisema. Le classi farmacologiche disponibili sono i beta2-agonisti, gli anticolinergici e le metilxantine (vedi Tabella 2)2,13. Questi farmaci svolgono un’azione miorilassante sulla muscolatura liscia delle vie aeree, aumentando il flusso d’aria ai polmoni e la tolleranza all’esercizio fisico e diminuendo di conseguenza la dispnea. Alla luce dei dati più recenti, i broncodilatatori inalatori a lunga durata d’azione sono da preferirsi alle formulazioni a breve durata d’azione o a quelle somministrate per via orale e si sconsiglia l’uso delle metilxantine a meno che non sia possibile reperire né i beta2-agonisti né gli anticolinergici a breve o a lunga durata d’azione2. La scelta terapeutica è basata sulla gravità dell’ostruzione secondo le linee guida GOLD (vedi Tabella 3) e sulla risposta clinica del paziente. In generale, i pazienti classificati come stadio 1 della scala GOLD possono essere trattati con beta2-agonisti a breve durata d’azione (SABA, Short-Acting Beta2-Agonist) o con anticolinergici a breve durata d’azione al bisogno. I pazienti appartenenti al 2° stadio della scala GOLD andrebbero trattati con beta2-agonisti a lunga durata d’azione (LABA, Long-Acting Beta2-Agonist) o con anticolinergici a lunga durata d’azione. I pazienti in stadio 3 o 4 della scala GOLD andrebbero invece trattati con corticosteroidi inalatori (ICS, Inhaled Corticosteroids) in associazione a un LABA o un anticolinergico a lunga durata d’azione. La terapia d’associazione di broncodilatatori appartenenti a classi farmacologiche differenti può migliorare la risposta terapeutica senza la comparsa degli effetti collaterali che si avrebbero aumentando la dose del singolo farmaco2,6.

L’utilizzo in monoterapia di corticosteroidi inalatori a lungo termine nel trattamento dell’enfisema è tuttora controverso, per quanto riguarda sia la posologia sia la sicurezza; pertanto non viene in genere raccomandato. Tuttavia, il trattamento con corticosteroidi inalatori di pazienti con FEV1 al di sotto del 50-60% del previsto ha dimostrato, in una minoranza di casi, di aumentare la funzionalità polmonare, ridurre i sintomi, migliorare la qualità della vita e limitare la frequenza di riacutizzazioni14,15. Nello studio ISOLDE, il declino del FEV1, principale indicatore di gravità, non è cambiato in modo significativo dopo inalazione del solo corticosteroide rispetto al placebo16. Nonostante non ci fosse alcuna differenza nel declino a lungo termine del FEV1, sono stati tuttavia osservati sia una diminuzione delle riacutizzazioni sia un migliore stato di benessere nel gruppo trattato con corticosteroidi inalatori rispetto al gruppo con placebo. Poiché altri studi sono giunti alle medesime conclusioni, la monoterapia steroidea inalatoria è stata sostituita con una terapia d’associazione con broncodilatatori + steroidi inalatori.

In numerosi studi, la terapia d’associazione ha portato a un miglioramento del FEV1 e dello stato di benessere nonché una diminuzione delle riacutizzazioni se paragonata alla monoterapia con corticosteroide inalatorio o broncodilatatore18,19. Sembra tuttavia che un maggior uso di corticosteroidi sia correlato a un aumento delle percentuali di polmonite nei pazienti affetti da BPCO1. La riduzione delle riacutizzazioni e l’incremento del FEV1 giustificano l’assunzione di questo rischio, tanto più che non è mai stata effettuata un’analisi mirata sul problema.

Per quanto riguarda invece i corticosteroidi sistemici per via orale (ad esempio prednisone, metilprednisone) alcuni dati in letteratura mostrano un lieve miglioramento del FEV1 all’interno di una popolazione selezionata. Tuttavia gli effetti collaterali a lungo termine della terapia orale quali osteoporosi, atrofia muscolare e soppressione surrenalica, messi a confronto con la disponibilità, la relativa sicurezza e l’efficacia della terapia inalatoria fanno sì che la somministrazione orale non sia utilizzata.

Le metilxantine possono essere somministrate in un qualsiasi stadio della malattia ma non sono indicate come terapia di prima linea2. La teofillina presenta diversi meccanismi d’azione tra cui l’inibizione non selettiva della fosfodiesterasi e viene metabolizzata dall’enzima CYP450, con conseguenti numerose interazioni farmacologiche. Il fumo di sigaretta interferisce con il metabolismo della teofillina e la clearance del farmaco diminuisce con l’aumentare dell’età.

Questa molecola, inoltre, presenta un basso indice terapeutico e una ridotta finestra terapeutica, portando quindi a maggiori effetti collaterali e a problemi di gestione farmacologica21. Si è visto in letteratura che la teofillina è più efficace se viene somministrata insieme alla associazione beta2-agonisti a breve durata d’azione - anticolinergici, mostrando una potenziale sinergia d’azione22. Pertanto non deve essere usata come farmaco di prima scelta, ma può essere aggiunta alla terapia inalatoria per massimizzarne gli effetti. Infine, nel caso di pazienti impossibilitati a usare gli inalatori a causa di difficoltà di coordinazione o deficit motorio, le metilxantine restano comunque una alternativa o possono essere aggiunte al regime terapeutico in atto2.

Gli inibitori della fosfodiesterasi 4 (PDE-4, PhosphoDiEsterase-4), a differenza delle metilxantine, sono inibitori selettivi dell’isoenzima PDE. L’unico principio attivo attualmente presente sul mercato appartenente a questa classe è il roflumilast. L’isoenzima PDE-4 si trova in diverse cellule proinfiammatorie delle vie aeree e si ritiene che l’inibizione porti effetti immunomodulatori positivi in pazienti affetti da BPCO. Gli inibitori delle PDE-4 aumentano il FEV1 se somministrati a pazienti già trattati con LABA o tiotropio e diminuiscono il numero di riacutizzazioni in gruppi selezionati23. Attualmente però il roflumilast è utilizzato solo in aggiunta alla terapia standardizzata per trattare forme di BPCO da moderata a grave e presenta effetti indesiderati quali nausea più frequentemente rispetto alle terapie inalatorie, potenziale limite alla diffusione del farmaco24. Come per le metilxantine, gli inibitori delle PDE-4 non sono stati testati come terapia di prima linea ma possono essere aggiunti alla terapia inalatoria in pazienti selezionati. L’associazione tra metilxantine e inibitori delle fosfodiesterasi-4 è controindicata perché presentano meccanismi di azione simili2.

 

Deficit di alfa1-antitripsina

I soggetti con deficit di alfa1-antitripsina rappresentano un sottoinsieme di pazienti affetti da enfisema. Si tratta di una anomalia genetica di natura codominante dove uno o entrambi i geni deputati determinano una riduzione della sintesi di alfa1-antitripsina a diversi livelli. L’alfa1-antitripsina circolante è il principale inibitore di proteasi presente nel corpo umano. Viene prodotta principalmente nel fegato, anche se una quota è sintetizzata dalle cellule epiteliali dell’intestino e dai macrofagi alveolari25. Tra le diverse funzioni svolte, questa proteina inibisce l’elastasi neutrofila che viene rilasciata nel sito di infiammazione dove, se non inibita, determina danno tessutale. Il tessuto polmonare è particolarmente sensibile poiché maggiormente esposto ai processi infiammatori dovuti all’inalazione e potenzialmente aggravati da noxae patogene quali il fumo di sigaretta. Tuttavia, il deficit di alfa1-antitripsina può favorire lo sviluppo di enfisema anche in assenza di ulteriori fattori di rischio. Inoltre questo difetto genetico non porta necessariamente solo allo sviluppo di enfisema; può manifestarsi anche con altre patologie quali la cirrosi epatica26. In generale, l’enfisema causato da deficit di alfa1-antitripsina ha un esordio precoce e si manifesta intorno ai 20 anni, molto prima dell’enfisema dovuto ad altre cause quali il fumo di sigaretta. La prevalenza maggiore di questa patologia si registra nella popolazione con età compresa tra i 40 e i 60 anni3.

La terapia per l’enfisema da deficit di alfa1-antitripsina è simile al trattamento descritto precedentemente. È necessario eliminare tutti i possibili fattori di rischio e seguire le linee guida GOLD. Un trattamento specifico può comprendere la terapia sostitutiva con la proteina. Il razionale è quello di mantenere livelli circolanti di alfa1-antitripsina entro presunti limiti di sicurezza che permettano di controbilanciare l’azione distruttiva dell’elastasi neutrofila a livello polmonare. Il limite principale riguarda i costi molto elevati, stimati in circa 55.000 USD negli Stati Uniti. Per questo motivo e per il numero esiguo di popolazione affetta da tale deficit non sono presenti in letteratura studi clinici adeguati a comprovare cause ed effetti della terapia27. Tuttavia, uno studio randomizzato su di un campione ridotto di pazienti ha dimostrato (senza significatività statistica) come la terapia sostitutiva con alfa1-antitripsina permetta la conservazione del parenchima polmonare senza declino del FEV128. Un altro studio osservazionale ha mostrato che la terapia sostitutiva era associata a un declino del FEV1 più lento e a un minore tasso di mortalità; tuttavia i dati non possono essere considerati predittivi a causa della loro natura osservazionale29. Lo screening dei pazienti per il deficit di alfa1-antitripsina non viene fatto di routine. Si ritiene che in un futuro la riduzione dei costi dei farmaci, lo screening di pazienti ad alto rischio di sviluppare tale deficit e la somministrazione della terapia sostitutiva con alfa1-antitripsina somministrata a un gruppo accuratamente selezionato di pazienti, possano rendere la terapia in questione maggiormente disponibile bilanciando costi e benefici.

 

Vaccini

La vaccinazione gioca un ruolo di fondamentale importanza come terapia aggiuntiva nel trattamento di pazienti enfisematosi, in quanto in questi pazienti l’influenza può complicarsi con una riacutizzazione bronchitica o con insufficienza respiratoria. Il vaccino antinfluenzale si è dimostrato estremamente efficace nella prevenzione delle complicanze della patologia influenzale riducendo morbilità e mortalità; per questo motivo andrebbe raccomandato a tutti i pazienti affetti da enfisema30. Analogamente, si consiglia di eseguire la vaccinazione anti pneumococco a tutti i pazienti con età inferiore ai 65 anni che presentano una malattia polmonare cronica, con richiamo ogni 5 anni, e di ripetere la profilassi dopo i 65 anni. Dati di letteratura hanno dimostrato come questo tipo di vaccino riduca l’incidenza di polmonite acquisita in comunità (CAP, Community-Acquired Pneumonia) nel sottogruppo di pazienti con enfisema da moderato a grave31.

Tuttavia la percentuale dei soggetti vaccinati con vaccino antinfluenzale e anti-pneumococco resta inadeguata, in particolar modo nella popolazione di pazienti ad alto rischio. In questo contesto il farmacista può fare la differenza, educando i pazienti sull’importanza della vaccinazione e sostenendo gli sforzi della medicina preventiva.

 

Terapia non farmacologica

Riabilitazione respiratoria. La riabilitazione respiratoria è una componente di fondamentale importanza nel trattamento dei pazienti con enfisema polmonare. La pratica quotidiana di esercizi riabilitativi mirati in pazienti con BPCO riduce l’astenia e la dispnea, aumenta la tolleranza allo sforzo, migliora la qualità della vita, riduce lo stato d’ansia e la depressione, aumenta gli effetti della terapia con broncodilatatori a lunga durata d’azione e la sopravvivenza2. Il programma riabilitativo dovrebbe essere costituito da un allenamento ad alta intensità (fino al 70% del massimale del paziente) per almeno 20 minuti/die con esercizi mirati a rafforzare la funzionalità polmonare. I programmi di riabilitazione respiratoria che prevedono meno di 3 giorni di esercizi la settimana o che durano meno di 6 settimane sono inefficaci rispetto a programmi terapeutici di più lunga durata. Tuttavia la maggior parte dei dati disponibili riguarda programmi riabilitativi di durata limitata e gli effetti ottenuti da questo tipo di riabilitazione non si mantengono una volta interrotta l’attività32.

Il programma riabilitativo è più efficace e dà maggiori benefici se praticato in cronico, in quanto anche un programma limitato può migliorare la tolleranza allo sforzo, la dispnea, la qualità della vita e le normali attività della vita quotidiana. Il programma riabilitativo riguarda anche altri importanti aspetti, fra cui: uno stimolo a sospendere l’abitudine tabagica, far sì che anche le famiglie incoraggino il paziente, oltre al personale sanitario, a eseguire gli esercizi riabilitativi, favorire la comprensione dell’approccio terapeutico, creare percorsi educativi in ambito sanitario, impostare strategie per ridurre la dispnea e le riacutizzazioni2.

Ossigenoterapia. L’ossigenoterapia viene prescritta nei casi più gravi di enfisema e la terapia a lungo termine deve essere presa in considerazione solo se le condizioni del paziente sono stabili e la terapia farmacologica ottimizzata. I criteri per la somministrazione di ossigenoterapia a lungo termine (>15 ore al giorno) sono: pressione parziale di ossigeno nel sangue arterioso (PaO2) inferiore a 55 mmHg (valore nella norma > 80 mmHg) o saturazione di ossigeno nel sangue arterioso (SaO2) inferiore a 88% (valore normale > 93%). Questi valori devono essere rilevati in pazienti a riposo e in condizioni stabili in almeno due rilevazioni successive in un periodo di tempo non inferiore alle 3 settimane. L’ossigenoterapia può essere somministrata anche per valori di PaO2 tra 55 e 60 mmHg in pazienti con policitemia (ematocrito > 55%), insufficienza cardiaca o ipertensione polmonare2. L’utilizzo dell’ossigenoterapia in pazienti ipossiemici selezionati riduce le ospedalizzazioni, migliora la sopravvivenza e la qualità della vita aumentando la tolleranza allo sforzo. I dati di letteratura attuali controindicano l’ossigenoterapia nei pazienti stabili che non soddisfano questi criteri33. La modalità di somministrazione più utilizzata è una cannula nasale con flusso di 1-6 l/min a seconda delle necessità del paziente utilizzando bombole con ossigeno gassoso o liquido o concentratori di ossigeno che separano l’ossigeno dall’aria ambiente. Il paziente in ossigenoterapia deve aver sospeso l’abitudine tabagica in quanto le sostanze in combustione a contatto con l’ossigeno possono provocare esplosioni o incendi.

Interventi chirurgici. Nei casi più gravi di enfisema sono possibili anche procedure chirurgiche. Le tecniche più usate sono la bullectomia, il trapianto di polmone e la riduzione volumetrica polmonare (LVRS, Lung Volume Reduction Surgery). La bullectomia consiste nella rimozione delle bolle polmonari di diametro superiore al centimetro che contribuiscono ad aumentare la dispnea e diminuire l’efficienza del tessuto polmonare sano. La rimozione delle bolle polmonari allevia i sintomi ma non ci sono dati che dimostrino una riduzione della mortalità2. Il trapianto di polmone viene preso in considerazione nei casi più gravi di enfisema ossia quando il FEV1 è < 20% del teorico, i pazienti sono ipossiemici o affetti da ipertensione polmonare nonostante terapia medica massimale e quando la prognosi è inferiore ai 2 anni. Il limite principale del trapianto è la carenza di donatori d’organo. In pazienti selezionati adeguatamente permette un incremento dell’aspettativa di vita e della qualità della vita stessa oltre a un incremento della capacità funzionale polmonare34.

La LVRS è una tecnica di resezione parziale volumetrica a carico del polmone che determina la riduzione della pressione all’interno della cavità toracica35. Questa tecnica migliora l’efficienza del diaframma e del tessuto polmonare residuo, migliora il flusso espiratorio e riduce le riacutizzazioni. I dati di letteratura hanno dimostrato che la LVRS è associata a un incremento dell’aspettativa di vita rispetto al solo trattamento medico in pazienti enfisematosi gravi con patologia principalmente a carico dei lobi superiori e ridotta tolleranza all’esercizio. Pazienti analoghi ma con una elevata tolleranza all’esercizio post ciclo riabilitativo non presentano una maggiore sopravvivenza né un netto miglioramento della qualità della vita.

Inoltre l’intervento di LVRS è controindicato nei pazienti con FEV1 < 20%, in quanto il rischio di decesso perioperatorio è maggiore della mortalità associata alla sola terapia medica massimale35.

 

Trattamento delle riacutizzazioni

Le riacutizzazioni di BPCO sono eventi acuti caratterizzati dal netto peggioramento dei sintomi respiratori rispetto alle condizioni basali e necessitano di trattamento terapeutico mirato. I pazienti riacutizzati spesso necessitano di ospedalizzazione e presentano un peggioramento irreversibile della funzionalità polmonare. La riacutizzazione di per sé aumenta morbilità e mortalità, oltre a essere un costo molto elevato per il Sistema Sanitario2. La gravità della riacutizzazione dipende dalla gravità delle comorbidità presenti e dallo stato funzionale basale del paziente. La causa è ascrivibile nel 50% dei casi a infezioni sia virali sia batteriche, mentre in un terzo dei casi l’eziologia rimane sconosciuta2,6. La diagnosi di riacutizzazione è principalmente clinica; il paziente lamenta dispnea ingravescente, tosse o incremento dell’espettorazione cronica che appare purulenta. Gli accertamenti diagnostici più utili sono la valutazione dell’ossigenazione con il pulsossimetro, la radiografia del torace per escludere la presenza di polmonite, l’elettrocardiogramma e accertamenti emodinamici per valutare gli indici di flogosi. La spirometria è controindicata perché non ha applicabilità immediata ma soprattutto per la difficoltà del paziente riacutizzato ad eseguire l’esame2,6.

L’obiettivo del trattamento nella gestione delle riacutizzazioni consiste in: prevenire l’insufficienza respiratoria acuta e il decesso e prevenire l’ospedalizzazione o ridurre i tempi di degenza ospedaliera, portando alla risoluzione dei sintomi e tornando alle condizioni basali.

I farmaci utilizzati sono: broncodilatatori, corticosteroidi e antibiotici. Nella fase iniziale della riacutizzazione si preferisce somministrare beta2-agonisti a breve durata d’azione con o senza anticolinergici, sia in soluzione nebulizzata sia con inalatori a dosaggio controllato; le due formulazioni garantiscono la stessa efficacia2,6. Le metilxantine somministrate per via endovenosa sono farmaci di seconda linea e vengono utilizzate quando la terapia con broncodilatatori inalatori non è efficace o non è applicabile2. A differenza di quanto detto per la terapia di mantenimento, i corticosteroidi sistemici giocano un ruolo fondamentale nella gestione delle riacutizzazioni di BPCO. Durante le riacutizzazioni, infatti, i corticosteroidi migliorano la funzionalità polmonare (FEV1), riducono l’ipossiemia migliorando i valori di PaO2 e riducono sia i tempi di degenza sia il rischio di fallimento terapeutico36,37.

La posologia e la durata del trattamento sono tuttora controversi. Si consiglia, in genere, la somministrazione di 30-40 mg di prednisolone o equivalente per 10-14 giorni preferibilmente per via orale anziché endovenosa. Una terapia più lunga aumenta gli effetti collaterali senza incrementare il beneficio2.

Per quanto riguarda la terapia antibiotica, si è visto che in pazienti selezionati riduce l’espettorazione purulenta, il fallimento terapeutico e la mortalità a breve termine. La terapia antibiotica è indicata se sono presenti tre sintomi cardine della riacutizzazione: peggioramento della dispnea, incremento del volume dell’espettorato e viraggio del colore da chiaro a giallo-verdastro (quindi comparsa di espettorato purulento). Nel caso in cui uno dei segni rilevato fosse la presenza di espettorato purulento, è necessario solo un secondo segno per avere indicazione ad iniziare il trattamento2. L’indicazione alla terapia antibiotica è presente anche nel caso in cui si renda necessaria la ventilazione meccanica invasiva o non invasiva. La scelta dell’antibiotico è legata alle resistenze batteriche note nel territorio e al tipo di batteri che normalmente infettano i pazienti con riacutizzazione (vedi Tabella 4)6,38. Si preferisce la terapia orale a quella endovenosa e la durata del trattamento varia da 5 a 10 giorni. Prima di iniziare la terapia antibiotica in pazienti con riacutizzazioni frequenti e/o gravi o in soggetti che richiedono ventilazione meccanica, è utile effettuare l’esame colturale dell’espettorato38. Il miglioramento della dispnea e la riduzione dell’espettorato sono segni di successo terapeutico2.

Supporto respiratorio. L’ossigenoterapia è una componente chiave nel trattamento delle riacutizzazioni di BPCO. L’ossigeno viene somministrato tramite maschere di Venturi o, se possibile, tramite naso cannula. L’obiettivo è ottenere una saturazione di ossigeno arterioso compresa fra 88 e 92%2. Le tecniche di ventilazione meccanica invasiva o non invasiva (NIV – Non Invasive Ventilation) possono essere necessarie in caso di riacutizzazioni gravi. La NIV ha dimostrato di essere efficace nell’85% dei casi ed è associata a minor frequenza di intubazione, di polmonite, di mortalità e a degenze di minore durata. Pertanto è una tecnica che andrebbe utilizzata ogni qualvolta sia possibile39. Se la NIV è controindicata per presenza, ad esempio, di arresto respiratorio o cardiaco, frequenza cardiaca inferiore a 50 battiti al minuto con perdita di coscienza o aritmie ventricolari, si ricorre alla ventilazione meccanica invasiva. I principali rischi associati a quest’ultima sono: il barotrauma, la polmonite nosocomiale associata a ventilazione meccanica (VAP – Ventilator Associated Pneumonia) e l’impossibilità di ristabilire un respiro spontaneo2.

 

Il ruolo del farmacista

Il farmacista si trova in una posizione privilegiata nel fornire un valido supporto al paziente e nel migliorare l’efficienza del sistema sanitario. Poiché l’enfisema è una patologia cronica non guaribile, gli sforzi del farmacista devono essere rivolti a programmi di prevenzione e ottimizzazione del trattamento terapeutico. L’abbandono dell’abitudine tabagica e l’importanza della vaccinazione sono alcune delle opportunità di intervento del farmacista. Inoltre, nel corso del trattamento dei pazienti enfisematosi, i farmacisti ricoprono un ruolo importante per semplificare e ottimizzare, dove possibile, l’iter terapeutico sulla base delle linee guida più aggiornate e della best practice. Spesso si manifestano comorbidità che necessitano di aumentare il dosaggio previsto del farmaco o di rivedere la terapia con l’aggiunta di altri farmaci che possono determinare interazioni farmacologiche con i trattamenti in atto. I farmacisti hanno la capacità e la possibilità di facilitare queste fasi di transizione a totale vantaggio dei pazienti, per i quali aumenta la sicurezza in termini di sopravvivenza, e del sistema sanitario per il quale i costi relativi ai programmi di prevenzione sono inestimabilmente elevati. Il sistema sanitario dovrebbe prediligere dei modelli di prevenzione rispetto ai modelli terapeutici tradizionali. Proprio grazie alla loro posizione, esperienza e capacità, i farmacisti sono indispensabili nel permettere questo importante cambiamento.

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